Recensione di Fulvio Turtulici
Talora mi sono chiesto che fine abbiano fatto il piacere e la capacità del raccontare, spesso desaparecidos nell’attuale produzione letteraria, forse intaccata pur’essa dall’afasia tecnologica che riduce il pensiero e la sua espressione a scheletri di parole, talvolta smozzicate per necessaria velocità e remote alle loro etimologie, per uno sviluppo generato dal caos sonoro.
Poi mi imbatto nelle pagine di “Sempre accesa è la notte”, primo romanzo di Paola Bigozzi e allora credo di capire: magari ciò dipende dal fenomeno di un’editoria dominante che ha sperso, per omologazione e conformismo, l’attitudine a leggere e a separare il grano dal loglio.
Già alla prima immagine sono stato attratto dalla sensualità che rende piacevole la lettura della vicenda narrata fino all’ultima goccia, spessa di vita dolorosamente e intensamente vissuta. La narratrice che intreccia collane con le storie della propria famiglia per conquistarsi l’attenzione è vita che prorompe carica d’eros e mostra quanto ben più, vorrei dire, carnali siano le pagine di un vero scrittore rispetto a tanti surrogati vacui del tempo che corre.
Il romanzo narra le vicissitudini, dalla fine dell’Ottocento fino alle delusioni del Maggio francese, della famiglia Fanelli, originaria della Val di Chiana. Storia di campi, di emigrazione, di violenze, di soprusi, ma anche di vittorie, il successo vero, su tutto ciò che tenta perennemente di spegnere il fuoco che Prometeo, ribellandosi, sottrasse agli dei per noi uomini.
E sono le donne, perché la Bigozzi è una scrittrice che definirei al femminile, le protagoniste del mantenimento e del nutrimento di quel fuoco che gli uomini stanchi paiono non riuscire ad alimentare più. Sono Ines, la cui freschezza vitale, quasi la stessa sanità contadina, mi ha ricordato la donzelletta leopardiana, nonna Eva, la forza della cui personalità mai sconfitta me l’apparenta alla Pisana del Nievo o alla Laura delle terre del Sacramento di Jovine, tra i più vividi personaggi femminili della nostra letteratura, e infine Lea riscattata dall’amore.
La narrazione si dipana dentro scenari che mutano con il mutare delle peripezie familiari, dalla Val di Chiana al Brasile, di nuovo in Italia e poi a Parigi e infine a Udine. E ripercorre le vicende della nostra storia patria e di noi italiani, poveri contadini e poveri operai dai diritti negati, emigranti che affrontarono il dolore del distacco e del conoscere quanto sappia di sale lo scendere e il salire per le altrui scale, la tragedia del fascismo e la fine delle illusioni, tutte cose che abbiamo dimenticate e di cui dunque dobbiamo dare merito alla Bigozzi di aver recuperato.
E’ il suo un raccontare pieno di colori e di suoni, di profumi, ora aspri, ora morbidi, una narrazione viva, ricca di immagini. Un linguaggio semplice e sobrio, immediato, talora non privo di lirici spunti. Si leggano, ad esempio, i passaggi in cui si rimemora l’esistenza nelle fazende brasiliane, dove Eva e Libertario andarono a lavorare, ovvero l’incontro a Parigi, alla vigilia del Maggio, tra Lea e Jean Claude e la ville lumiere che è stata uno dei miti della generazione che prima sperò di rinnovare la società e poi rifluì. Colpiscono per la levità del racconto e insieme per la riflessione che l’autrice, attraverso i protagonisti, fa sui fatti.
Ma, come ho detto, mi sembra che la motivazione prima di questo bel romanzo di Paola Bigozzi sia di poter affermare il ruolo della donna. Essa è, come la madre terra, ventre che accoglie il frutto e le dona la luce, la vita, quella di cui nonostante essa sia l’unica ricchezza prolifica, non capiamo appieno il valore, che sempre, come negli spazi boschivi bruciati dalla scempia avidità e dove pervicace la pianta rinasce, supera il senso di morte insito nello spirito guerriero e mercantile dell’altra metà, la quale forse, come avviene a Filippo, soltanto perdendo la corta vista riacquista la capacità di mirare l’eterno senso dell’essere nel mondo, per convivere e conoscersi tra simili.