Leggere le Satire di Giovenale è come trovarsi nella Roma antica e viverla come un Romano d’allora: aggirarsi per la Suburra o sotto la loggia di Giasone alle grida degli ambulanti, assistere alla contesa delle sportulae; passare davanti alle tabernae dei ricchi liberti ed ammirare gli ori, le preziose argenterie e i vasi murrini; vedere la liburna del patrizio sfrecciare fra due ali di folla che si aprono spontaneamente al suo annuncio, mentre il plebeo a piedi non riesce a passare sospinto e calpestato com’è da ogni parte; accompagnare alla mensa del ricco il cliente illuso di un pasto succulento e osservare il trattamento gramo che gli viene riservato; partecipare alle cause in tribunale e scoprire che a deciderne le sorti è spesso l’ostentazione di ricchezza da parte degli avvocati; badare ad evitare la delazione su cui si fonda in gran parte il potere; verificare i privilegi dei militari nel contenzioso coi civili, ammesso che questi ultimi decidano imprudentemente di avviarlo; andare ai bagni satolli di un cospicuo pavone…
Le Satire, un’opera straordinaria che Paolo Bon ci consegna in un’interpretazione non filologica, bensì poetica.
Testo latino a fronte
Decimo Giunio Giovenale
La nascita di Decimo Giunio Giovenale dovrebbe collocarsi a ridosso del 54 d.C., anno della morte dell'imperatore Claudio ucciso con dei funghi velenosi dalla moglie Agrippina (episodio più volte rammentato dall'A.). La sua origine dovrebbe essere aquinate, come risulta da un riferimento collocato dall'A. alla fine della satira III. Se si situa la sua tardiva attività poetica fra gli anni 100 e 127 d.C., come risulta da riscontri oggettivi, sembra giusto sostenere che Roma l'abbia accolto poco prima di quel periodo. Sta di fatto che nel 100 era già stata compilata la Prima Satira e nemmeno si può escludere che le altre quattro del primo libro siano state composte prima di quell'anno. Un avvenimento che appare certo e datato (almeno credendo a Giunio sulla parola) è un viaggio in Egitto da lui compiuto "durante il consolato di Iunco", che lo esercitò con Giulio Severo nel 127 d.C., dove l'A. assistette ad un episodio cannibale rituale a forte impatto emotivo. Nel 135 d.C., quando l'imperatore Adriano dà inizio ai lavori per il suo mausoleo (oggi Castel S.Angelo) Giovenale probabilmente è già morto. Giovenale, a parte la stima e l'amicizia dedicategli da Marziale, non ebbe fortuna di poeta in vita, forse a causa della sua eccessiva riservatezza: già all'inizio della Prima Satira si coglie il suo atteggiamento verso poetucoli postulanti e presuntuosi che impongono agli altri i propri versi e si capisce che lui non lo farebbe mai. La "scoperta" del nostro poeta avviene verso la fine del IV sec. d.C., quando lo storico Ammiano Marcellino lo nomina fra gli autori più letti del suo tempo. Ma il vero e proprio successo, Giovenale lo incontra nel Medio Evo cristiano, che ne esalta la carica moralistica. Dante lo cita più volte nel Convivio e nel De Monarchia; nella Divina Commedia lo pone nel Limbo; lo citano il Petrarca e quasi tutti i coevi umanisti, più tardi l'Ariosto e l'Alfieri, il Carducci nei Giambi ed Epodi e Victor Hugo negli Châtiments. Sua è la famosa locuzione "panem et circenses". D'intelligenza prettamente antistorica, incapace di scendere a patti con una cultura artefatta di greconzoli di dubbia origine (e certo non cecropica), egli è un inesausto "laudator temporis atti" e, probabilmente, nell'enfasi declamatoria con cui colpisce i vizi - peraltro assai gravi - della sua società non s'accorge di trascinare nel fondo la società stessa, "vitiis et virtutibus": muoia Sansone con tutti i Filistei!
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