dalla Prefazione di Mario Specchio:
«Le poesie di Paolo Corradini sono come il soffio di un vento turbinoso che scompiglia l’assetto quotidiano, apparentemente ordinato, nel quale ci rifugiamo per sopravvivere. E l’autore fa questo con la naturalezza di chi è abituato a scalare le montagne e a respirare l’aria ossigenata delle nevi. La sua lingua è tagliente, nitida, non ha bisogno di scardinare l’assetto semantico e metrico dell’espressione poetica – procedimento caro a tanta sedicente poesia proliferata sulle macerie delle avanguardie, storiche e non. Ma nessuno può essere sfiorato dal dubbio, leggendo questo libro, di trovarsi di fronte ad una lirica sprovveduta né tantomeno ingenuamente effusiva; Corradini rinnova, nel solco di una tradizione alta, che va da Ungaretti a Cardarelli, da Lorca a Eliot, gli strati profondi della lingua di cui si serve con consapevole padronanza, conferendo al lessico quotidiano la forza dell’innovazione e accendendo le parole comuni di un sovrasenso che le rende inconfondibili. Per lui vale l’antica massima rem tene, verba sequentur. È proprio questa intima necessità a garantire la tenuta stilistica di una investigazione che non conosce sosta e non concede tregua a chi legge. Ciò che queste poesie inseguono, nel giro ampio e concitato dell’interrogazione, nella tenerezza smarrita del dubbio e dello sgomento, è la decifrazione del destino, l’enigma dell’essere di cui il singolo è artefice e vittima, strumento ignaro e folgorante annuncio. Qui, al margine di una terra di nessuno dove i confini vengono incessantemente rimossi, Corradini dispone le fiaccole solitarie delle sue liriche. Si allineano i reperti del mito antico e moderno, Achille e Patroclo, Ulisse e Gesù, sugli spalti di una ricognizione che ha visto – e continuerà a vedere – il trionfo e il fallimento, l’orgoglio e l’umiliazione : “ Questa montagna bruna: // Dopo aver navigato il sole / e le incostanti lune / di incalcolate insonnie. / Dopo aver sondato il silenzio / con le proposte dell’ombra. / Ed esteso i sensi / per i mari della sua sete. // Questa montagna bruna.” (Il canto di Ulisse).
Al di là del silenzio torna a nascere il canto ed esso si rivolge a un Dio sconosciuto che pure non mente se non per ricondurci alla speranza, dopo averci fatto provare la stretta dell’abbandono : “ Dio si rivela molto più / nell’oscurità che nel chiarore / ai nostri occhi immortali”.
Ed è proprio la teodicea sofferente che attraversa il raggio di queste liriche a inseminare di sensi riposti tanto i dettagli della storia quanto la cronaca della vita singola, mature, sia l’una che l’altra, per una rivelazione sempre annunciata e sempre differita : “ Mi appare, a volte, / fra il tormento degli uomini / ed il tuo disegno di redenzione, / la morte / come il mio antico velo, / stele e filtro di sogni. / Mi spalmerà gli occhi / come facesti Tu Signore ? / Allora, dirò nell’incorporeo : / Io vedo.” Paolo Corradini coniuga con perfetta naturalezza l’empito religioso di una mistica secolarizzata con una plasticità sensuale che verrebbe di dire pagana se non fosse soprattutto classica, ed il risultato è un accordo timbrico e metaforico che avvolge il creato nella sua totalità, operando attraverso suggestive – e quasi visionarie – contaminazioni interne. Così lo sguardo interiore del toro in attesa di essere spinto nell’arena si fa strumento di una percezione ancestrale dell’essere, negata a chi, sotto effigi ‘umane’, tra poco, lo salverà, senza saperlo: “ Il mio redentore si fletterà su di me / così vicino da assorbirne il respiro. / Dardeggerà il sole sulla lama. / Mi parrà l’ordito di una stella. / Tutto è furore di un istante. / Sarà astinenza la morte.” (Il toro). O la solitudine del leopardo su cui aleggia la percezione dell’infinito, filtrata da un tocco gelido che poi è la mano stessa di Dio, “ Mai compresi gli uomini ed i loro fuochi/ riverbero di canti d’amore e di mestizia. / Ma con cuore d’uomo salpai / per le alte nevi del monte / nella solitudine tersa / che corona le creature elette. / Qui ricevo indivise la morte / e la chiarità di un cielo che non comprendo./ Sopra di me, di gelido azzurro, la mano di Dio. / Sopra il mio pianto nevica.” (Il leopardo del Kilimangiaro). E tutto questo altro non è poi se non il rovescio speculare dell’amore umano, la sete struggente di alterità che si placa solo, paradossalmente, nel trauma del distacco, nel gesto eroico – e disumano – dell’addio : “ Io rimarrò nell’intimo tuo e nella tua sete / diffuso fin dove non sai, / Nel tuo sconfinato immenso / per il potere dell’addio / per il potere dell’amore / ti fisserò incorrotta.” (Se ti dicessi addio). È questa una delle corde più vibranti nella poesia di Corradini, la scommessa che punta tutto, senza residui, sull’amore, sulla luce che accende d’un tratto i colori del mondo, e sull’urlo che lo avvolge quando il miraggio scompare e attorno a lui torna a stringersi lo spazio allucinato del deserto. Ma davvero l’amore è illusione ottica, inganno di un attimo, o non è proprio nel prezzo atroce del distacco – sembra chiedersi Corradini – che risiede il senso profondo della vita, dell’uomo come dell’animale, nella memoria che si fa oblio, nel brivido che sembra provenire dalle stelle per rischiarare spazi inabitabili ? “Pienamente comprenderci non potremo mai, ma potremo assai più che comprenderci”, scriveva il romantico Novalis in un celebre frammento, circoscrivendo all’interno di quello che fu definito idealismo magico, lo spazio fatato e fatale nel quale si capovolgono le categorie concettuali ed il paradosso diviene contemporaneamente antidoto all’assurdo e pienezza di senso, proprio là dove tutto sembra scomparire alla vista dei sensi. Forse la voce di Paolo Corradini dispiega il suo canto in questa crepa inattingibile allo sguardo, dove non si ‘comprende’ ma si assume l’infinito nella curva di un presentimento oltre il quale il tempo e lo spazio scambiano i ruoli facendo dell’uomo il campo di battaglia di una vicenda che è, simultaneamente, divina e demoniaca. Tutto questo però non significherebbe molto se Corradini non fosse poeta fino al midollo, il che vuol dire che la sua presa sulla realtà è una presa diretta che paga ogni volta un prezzo alto e rischioso, ed ogni volta si muove sull’orlo dell’abisso. Da questo abisso scaturiscono le parole, lucide e levigate, taglienti e caparbie, per comporsi in un ritmo originale che è solo suo, come sempre accade in presenza di un poeta vero, perché prima di essere timbro e metrica, è ritmo del sangue, pressione arteriosa, spasmo puerperale. La forza della poesia di Paolo Corradini è in ragione della sua coerenza biologica, ma poi il sangue diviene parola e musica, metafora e segno, e rischiara il turbinio degli affetti con lo sguardo sgomento ma chiaroveggente del suo indimenticabile maratoneta che ha attraversato “ il sole senza sole / grigio / dei peggiori giorni / squarci / di adamantine stelle”, e bevuto come un lupo “ il sangue / fecondo e terribile / dell’amore”, per intravedere, alla fine della sua lunga marcia il cenno di un saluto nel quale, finalmente, placare la sete, estinguere l’angoscia: “ Poteva essere / inferno / o paradiso /. Ma da come / mi salutavi con la mano / da lontano capii / che anch’io / venivo perdonato.”
Leggendo – e rileggendo – questo libro, si ha la sensazione di percorrere un territorio i cui contorni inquietano mentre rassicurano, un paesaggio rischiarato da una luce ora apollinea ora spettrale, che Paolo Corradini ha attraversato, con queste sue liriche, conservandone intatta la trasparenza e l’enigma.»