dalla Recensione di Anna Panicali:
«È il sentimento della perdita che informa i bei racconti di Vera Franci, il cui sentire si fonda sulla lontananza, su qualcosa che è venuto all’improvviso a mancare. È un sentimento profondo che in lei diventa anche un modo di pensare a ciò che è stato; di ascoltare l’universo di emozioni cui ciascuno appartiene; di innescare il meccanismo della memoria. Proprio di quella memoria che affiora dall’oblio; che nasce dalla cancellazione. Come qui è evidente in ogni racconto, dove tornano, “rinvengono” immagini, profumi, sapori che hanno a lungo covato dentro e hanno resistito al tempo.
La lontananza accresce, anziché attenuare, la visibilità tutta interiore delle persone, degli oggetti, dei paesaggi di una volta, perché come ci suggerisce Borges “i campi dei miei antenati sono ancora miei: non gli ho persi. Li possiedo/se li scordo, se ad un tratto li rimpiango” (Acevedo).
Stupendo è il racconto Era un olivo o un leccio? dove la natura maremmana è narrata dal vecchio Giacomo ai bambini che l’ascoltano in silenzio, “come si ascolta una favola” (p.100). Una favola, appunto. Perché Vera Franci sa che i luoghi, così come le persone restano giovani e intatti solo nella mente. Che i ricordi – e sono immagini, suoni, profumi rimasti a lungo celati dentro – riaffiorano come dall’oblio a contatto con il mondo presente quando permane qualche impronta del passato.
Ma se persino le tracce del paesaggio familiare vengono cancellate? Se è impossibile qualsiasi riconoscimento? Allora anche il passato – ci dice Vera attraverso il vecchio Giacomo – ci viene come sottratto. Perché si presenta fait una volta per tutte, concluso: ha finito di parlarci, non ci viene più incontro. E allora è la morte vera: quando come nel racconto Olocausto, il distacco dal proprio mondo è già avvenuto. Eppure – ed è questo il movimento proprio della nostalgia – nello stesso momento in cui i luoghi e il tempo ci appaiono stranieri, torna qualcosa di usuale: anche se il paesaggio intorno è come assediato dall’insignificanza e dall’estraneità, al punto che è diventato “un’altra cosa” (p. 106), all’improvviso un evento minimo, invisibile agli altri, torna a farsi risentire “Ci fu nell’aria un movimento impercettibile, qualcosa di cui nessuno, certamente, avvertì il passaggio, ma Giacomo lo riconobbe e i suoi occhi si ravvivarono. 'È cambiato vento' disse allegro e allungò il vecchio collo rugoso, come fanno gli aironi, quando fiutano le correnti” (p.106).
È un segnale, questo, che qualcosa resiste, in noi e nella fisicità dei luoghi. Grazie a quel vento, possiamo dire con Borges: “Tutto il passato torna come un’onda/e quelle antiche cose sono qui” (Inno). Ma è anche il segno che la memoria si muove al di là del ricordo. Che, sebbene ci possa apparire oscura, è anche una dimensione radicata come memoria dei nostri antenati, della specie che si perpetua in noi. Non a caso il mito vuole Mnemosyne, la memoria, figlia della terra e del cielo, ossia del visibile e dell’invisibile, del limite e dello sconfinato.
Questi racconti, sono a mio avviso, la modulazione di un unico persistente motivo: “Il bello è crederci” (p. 93). Ovvero credere al passato che ormai appare come un universo di favola, o alla magia di immagini strane, di mondi sconosciuti che ci sorprendono per quanto, come Giuseppe, non ci siamo mai mossi dal nostro paese. Le immagini vengono richiamate sempre dal racconto, dal narrare stesso, il cui ritmo sembra avere proprio l'alternarsi di una cancellazione, di una perdita e di un ritorno. È dalla narrazione fantastica dell’Uomo dal naso nero che conosciamo luoghi che non potremo più dimenticare: perché sono luoghi dell'anima. Ed è qui che si innesca la riflessione di Vera sul narrare, sulla capacità che ha il racconto di far “partire e ritornare, ma con il cuore e con la mente” (p.77) (e qui non si possono non ricordare i personaggi calviniani delle "Città invisibili"); ma anche di presentare al lettore i fatti e le molte verità che ad essi si intrecciano: come in un’udienza giudiziaria. Non è un caso che, come l’Uomo dal naso nero, anche il personaggio de Le molte verità scompare nel buio, quasi “non fosse mai esistito” e nascesse dalla fantasia dell’autrice, per dire al lettore che può accogliere dentro di sé solo granelli di verità: “Un granello di verità, inquinata da mille malizie, ma pur sempre verità: questo solo ci è concesso. E forse quella assoluta non è altro che la capacità generosa di accoglierle tutte dentro di noi, per farne una soltanto che non veda un accusato ed un accusatore, ma che sia consapevolezza, seppure amara, dell'eterna interscambiabilità dei due ruoli” (p.124)
La narrazione di Vera Franci dunque si sviluppa e cresce all’ombra della mente o della memoria: poiché lo sguardo percepisce intorno a sé solo ferite (le ferite della guerra o anche della speculazione al paesaggio e ai luoghi, non alle persone) non può non affidarsi all’invisibile e non guardare il mondo con gli occhi dell’anima. “E davanti agli occhi della sua mente, sfilavano e si dissolvevano, come sequenze cinematografiche: campi di grano, papaveri, olivi e ginestre. E gli alberi di Giuda, accesi come fiaccole nella campagna di primavera, ancora spoglia” (p. 106)
Non può non affidarsi alla nostalgia di qualcosa di durevole in un mondo in cui tutto deperisce. Non a caso, i veri protagonisti di questi racconti sono figure di vecchi: Giacomo, che vive l’esperienza della lontananza, della sparizione, dello spaesamento. O Giuseppe, il finto marinaio che è “come il sole, la luna, la risacca del mare, il soffio del vento: tutte cose che chissà da quanto tempo ci sono, eppure ogni giorno ritornano e sono sempre uguali”(p.85).»